Carta bianca a Martin Scorsese, seconda parte: cosa ci aspetta in autunno

21/07/2023

 

Il programma completo della Carta bianca a Martin Scorsese, che mette in relazione il suo ruolo di regista e quello di appassionato cinefilo: per ogni suo film Scorsese ha scelto per noi un altro cui si è particolarmente ispirato.

Le proiezioni sono iniziate lo scorso 1° giugno, con la prima parte della rassegna, che ha visto la partecipazione del regista, a Bologna venerdì 2 giugno.

A settembre e ottobre, la retrospettiva continuerà con una seconda parte autunnale, per proseguire la nostra indagine nel cinema di Scorsese e nella storia del cinema, un percorso unico pieno di abbinamenti sorprendenti capaci di svelare prospettive inaspettate sulle radici del genio scorsesiano.

 

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Di seguito la programmazione completa, estiva e autunnale, della Carta bianca stilata da Scorsese:

CHI STA BUSSANDO ALLA MIA PORTA? (Who’s That Knocking at My Door, USA/1967) di Martin Scorsese (90’)
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Primo lungometraggio di Scorsese e primo film di Harvey Keitel, prepara Mean Streets seguendo le bighellonate di tre giovinastri di Little Italy, tra tentazioni della strada e bambagia famigliare. Charlie si innamora di Katy, ma il suo sentimento e la sua educazione cattolica sono messi a dura prova quando scopre che la ragazza ha subito violenza dal suo ex. Scorsese guarda a Cassavetes e a Godard, ma sembra già avere un mondo tutto suo, nel cuore e negli occhi. (am)

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OMBRE (Shadows, USA/1959) di John Cassavetes (81’)
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Ombre porta su di sé i segni di certo cinema americano, lontano da Hollywood. Il documentario urbano, la lezione ‘antropologica’ di Maya Deren sono state perfettamente digerite da Cassavetes. Su queste fondamenta, egli inserisce la sua passione per il gioco degli attori, che affinerà nei film a venire. Il jazz con la sua frenesia sincopata guida il montaggio. “Quando ho visto per la prima volta Quarto potere, mi sono improvvisamente reso conto di cosa facesse realmente un regista. Posizionamento della macchina da presa, illuminazione, musica, montaggio, tutto ciò in connessione con una sceneggiatura solida… ma quando ho visto Ombre mi sono reso conto che dovevo fare film” (MS).

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AMERICA 1929: STERMINATELI SENZA PIETÀ (Boxcar Bertha, USA/1972) di Martin Scorsese (88')
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America 1929 apparteneva a un nuovo genere inaugurato da Gangster Story, che all’epoca aveva un pubblico assiduo. Vi ricordate lo slogan pubblicitario ‘Sono giovani, si amano e uccidono’? Noi li amavamo, erano formidabili e indossavano dei vestiti stupendi. Roger [Corman] mi disse soltanto: ‘Leggi la sceneggiatura, riscrivi quello che vuoi ma ricordati che ci deve essere un po’ di nudo, almeno ogni quindici pagine. Magari una spalla, o una gamba giusto per mantenere vivo l’interesse del pubblico’” (MS).

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L’IMPERO DEL CRIMINE (Guns Don’t Argue, USA/ 1957) di Richard C. Kahn, Bill Carn (92’)
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Realizzato a partire dai tre episodi della serie Tv del 1952 Gangbusters, questo film low-budget ricostruisce attraverso drammatizzazioni i successi dell’FBI contro i più celebri criminali degli anni Venti-Trenta (John Dillinger, la gang dei Barker, Bonnie and Clyde, Homer Van Meter, Doc Barker e Pretty-Boy Floyd). “Ha una struttura a episodi e uno stile molto documentaristico. È un film incredibile. Va studiato, perché ti mostra come fare un film a basso budget” (MS).

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MEAN STREETS - DOMENICA IN CHIESA, LUNEDÌ ALL’INFERNO (Mean Streets, USA/1973) di Martin Scorsese (110’)
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Primo degli indimenticabili trattati antropologici sulla vita a Little Italy secondo Martin Scorsese, in cui ciò che più conta è l’ordine morale della Strada (e dei capibanda, e dei preti) e dove la violenza emotiva è esponenzialmente più terribile di quella fisica. Aggiornata la lezione artistica del padre cinematografico Kazan e metabolizzata quella linguistica di Fuller, in Mean Streets l’uso più espressivo della macchina da presa e il montaggio serrato scandito a colpi di una colonna sonora di grande effetto, parlano già un idioma tutto scorsesiano.

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PRIMA DELLA RIVOLUZIONE (Italia/1964) di Bernardo Bertolucci (115')
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Opera seconda di Bertolucci che coniuga passione e ideologia: l’amore impossibile del ventenne Fabrizio per la giovane zia, le sue convinzioni politiche e i suoi ripensamenti, in un ritratto impietoso della borghesia incapace di cambiare. “Ho visto Bertolucci, alla presentazione di Prima della Rivoluzione. Avevo ventitré anni, ed ero lì che lo guardavo come una divinità. Ma più di tutto, a sopraffarmi, fu la bellezza del suo film. […] Ho sentito una connessione con Prima della rivoluzione a un livello profondamente umano. La bellezza contenuta nel film mi ha parlato direttamente ed eloquentemente, così come la schiacciante tristezza che trasmetteva. Ero affascinato dal suo potere espressivo, dal puro piacere che Bertolucci provava nell’esercitare la sua creatività ed ero affascinato dal suo dono per l’invenzione cinematografica, dalla sperimentazione, dalla ricerca di nuovi modi per raccontare una storia attraverso immagini e parole” (MS).

ALICE NON ABITA PIÙ QUI (Alice Doesn’t Live Here Anymore, USA/1974) di Martin Scorsese (112’)
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Partendo dal New Mexico, Alice sogna di imporsi come cantante tornando alla natia Monterey (California), ma si ferma in un drugstore di Tucson (Arizona). Vedova, ultratrentenne, con un figlio appresso, scopre che non può fare a meno di un uomo. Tra le lacrime del melodramma e i sorrisi della commedia sofisticata. “A Hollywood hanno adorato Mean Streets, ma si sono convinti che potessi dirigere solo attori maschi! Ellen Burstyn, che era sulla cresta dell’onda dopo il successo dell’Esorcista, cercava un giovane regista per Alice non abita più qui. […] Sono stato soddisfatto solo in parte del risultato, perché abbiamo girato un film da tre ore e mezza e abbiamo dovuto ridurlo a meno di due. […] Non l’abbiamo mai intesa come una pellicola femminista. Era un film sulle responsabilità e su come le persone continuano a ripetere i medesimi errori” (MS).

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TAKE CARE OF MY LITTLE GIRL (USA/ 1951) di Jean Negulesco (93’)
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Una favola sociale in technicolor. Al suo arrivo all’università, Liz viene subito inserita nella confraternita più esclusiva, cui aveva fatto parte anche la madre. Scoprirà a sue spese crudeltà e snobismo di una delle istituzioni informali fondanti del perbenismo americano. “Questo film è una sorpresa: nasce dal sistema degli studi cinematografici dei primi anni Cinquanta, quando sembrava che il conformismo fosse ancora imperante. Qui abbiamo invece un film che lo mette seriamente in discussione: è un potente documento sulla società – comportamenti, rituali, abbigliamento, stili di vita – e allo stesso tempo è un film molto divertente” (MS).

L’ULTIMO WALZER (The Last Waltz, USA/1978) di Martin Scorsese (117’)
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“La musica è la mia vita. Quando mi hanno proposto di filmare il concerto di Winterland, non ho esitato un secondo, l’occasione era semplicemente irresistibile” (MS). L’addio di The Band, il grande gruppo di supporto di Bob Dylan, al concerto di San Francisco del ’77 è preparato dal regista come un kolossal: sette macchine da presa, alcuni tra i migliori direttori di fotografia (tra cui Micheal Chapman e Volmos Zsigmond), una ricca sceneggiatura, interviste a separare i tanti pezzi dal vivo, montaggio monumentale e l’idea di documentario come saggio sulla fine dei tempi. Secondo molti il canto del cigno della generazione-Woodstock. (Roy Menarini)

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I RACCONTI DI HOFFMANN (The Tales of Hoffmann, GB/1951) di Michael Powell, Emeric Pressburger (115’)
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I racconti demoniaci di Hoffmann, nella versione musicale di Jacques Offenbach: venditori di occhi, seducenti bambole meccaniche, stregoni che trasformano la cera in diamanti, donne fatali che portano la morte, specchi che rubano l’immagine e maghi che comprano anime. Fantasia gotico-espressionista con picchi di delirio visivo, per la quale Powell e Pressburger ricompongono il magnifico gruppo di artisti di Scarpette rosse. “È un film molto speciale per me. Ne fui affascinato e quasi ossessionato. Scarpette rosse era pieno di musica e danza. I racconti di Hoffman era musica e danza. A creare le musiche e le coreografie non sono solo i ballerini, ma anche la macchina da presa, e questa è una cosa rimasta nel mio lavoro nel corso segni anni” (MS).

RE PER UNA NOTTE (King of Comedy, USA/1990) di Martin Scorsese (109′)
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“Buffone di seconda categoria, Rupert (Robert De Niro) non è un genio incompreso. È un re solo nei dialoghi che immagina di avere con Jerry Langford, il suo idolo. A lungo differito, il suo grande monologo non è la prova di un talento eccezionale. Rupert ci affascina solo perché sarebbe pronto a vendere l’anima al diavolo, pur di essere il divo di una notte. Non senza perversione, Scorsese scambia le parti assegnate alle sue star. A Jerry Lewis tocca quella di un businessman privo di umorismo, imbronciato fino alla misantropia, il cui sguardo si illumina solo quando è in preda alla collera. Invece De Niro, fin lì votato a imponenti prove drammatiche, prende in prestito alcune caratteristiche, e persino alcune gag, al ‘ragazzo tuttofare’ di cui ha visto e rivisto tutti i film per calarsi nella parte”. (Michael Henry Wilson)

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AVAMPOSTO SAHARA (Station Six Sahara, GB/1963) di Seth Holt (101’)
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“Un gruppo di soli uomini vive isolato in un impianto petrolifero nel deserto. Fra di loro aleggia una forte sensazione di omosessualità – ma poi, in una sequenza straordinaria – questa sirena (Carroll Baker) entra in scena con il marito, e tutti gli uomini cercano di uccidersi fra loro. Il senso di desolazione e di morbosità rendono il film migliore di quanto un magazine scandalistico come il “National Enquirer” possa mai inventarsi. Il montaggio e l’uso dei dialoghi sovrapposti sono meravigliosi. S’avverte in modo tangibile la sensazione di essere bloccati in un luogo. E s’impara cosa significa vivere in una comunità di persone che stanno al margine” (MS).

FUORI ORARIO (After Hours, USA/1985) di Martin Scorsese (96’)
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Se una notte d’estate un viaggiatore si perdesse tra le strade buie, le stanze d’artista dark e le cantine punk di Soho, New York, la sua avventura sarebbe trascinante e terrificante, e anche molto divertente, purché si abbia un senso del divertimento piuttosto cupo. Fuori orario è forse il più sperimentale dei film di Scorsese, angosciosa lacerazione del tessuto della commedia urbana: la sua traiettoria dominante è la caduta, il suo impegno più evidente lo stile. Ci fu chi parlò di Kafka, chi di un “itinerario cristologico”, e forse meglio di tutti Richard Schikel lo rinominò “Ulysses in Nighttown”: la cultura letteraria d’un secolo sembra premere sulle disavventure dello yuppie informatico Griffin Dunne, a dir poco sgomento mentre la sirena insonne Rosanna Arquette lo introduce ai misteri underground della Manhattan 1985. (pcris)

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THE INSIDE STORY (USA/1948) di Allan Dwan (87′)
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“Girato nel 1948, quando una flessione economica fece temere un ritorno al buio degli anni Trenta, The Inside Story riporta con un flashback ai tempi della Depressione e narra una favola incredibilmente pertinente sulla necessità di tener viva l’economia facendo circolare il contante. Un clima di realismo magico sottolineato da una felice catena di coincidenze pervade questo film narrativamente complesso ma piacevolmente rilassato, sensibile e ottimista. Ancora una volta a sistemare tutto intervengono due sconosciuti, i contrabbandieri newyorkesi interpretati da Allen Jenkins e William Haade”. (Dave Kehr)

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IL COLORE DEI SOLDI (The Color of Money, USA/1986) di Martin Scorsese (119’)
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Invitato da Paul Newman a dirigere il seguito dello Spaccone, Scorsese riesce in un’operazione piuttosto rischiosa, restituendo al personaggio la stessa intensità di venticinque anni prima ma aggiornandone i motivi psicologici e l’ambiente circostante con grande maestria. La struttura classica del film di Rossen, le scelte morali in bianco e nero dei suoi personaggi lasciano il passo al non detto, a un’ambiguità ‘al neon’.

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IL SORPASSO (Italia/1962) di Dino Risi (108’)
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Ferragosto 1962. Una Roma deserta. Una Lancia spider. Un perdigiorno vorace (Gassman) e uno studente timido (Trintignant). Via lungo l’Aurelia, risalendo una vita balorda a velocità folle. Certe bravate, certe ragazze, certe canzoni che danno da pensare o da ballare. Siamo di nuovo lì, immersi in quegli anni sovreccitati e inquieti, fino alla curva fatale. Il nostro vero capolavoro nouvelle vague. “Il film di Dino Risi è meraviglioso, bello e vivo. Tratta dei vecchi valori. Qui, ovviamente, c’è molta più vita rispetto a Il colore dei soldi. Risi mette in discussione i grandi valori in Europa dopo la Seconda guerra mondiale. E trattarli nei tempi attuali è prezioso” (MS).

LEZIONI DI VERO (Life Lessons, Episodio del film collettivo New York Stories, USA/1989) di Martin Scorsese (44’)
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“Richard Price scrisse per me una sceneggiatura per un film di circa quaranta minuti sulla fine della relazione tra un artista (ma avrebbe potuto essere uno scrittore o addirittura un regista) e la sua assistente. Lui era sulla cinquantina, la ragazza poco più che ventenne, e il loro rapporto non offriva più niente di nuovo. Il tutto era basato su un’idea che volevo realizzare da anni, tratta dal Giocatore di Dostoevskij. […] Quello che mi interessava era il dolore insito in questa situazione, quanto lui ne avesse bisogno per il suo lavoro, e quanto fosse lui stesso a generarlo”. (MS)

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EVA (Francia-Italia/1962) di Joseph Losey (116’)
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I fratelli Hakim propongono a Losey la regia di un film tratto da un romanzo di James Hadley Chase. Da buoni produttori hanno già previsto il cast: Stanley Backer e Jeanne Moreau. Losey legge il libro, vi trova accenti personali, come l’esilio, ad esempio. Ci sono una donna alto borghese e uno scrittore fallito. Sposta l’ambientazione da Hollywood a Venezia, durante il festival. Come Greed di Stroheim, è un capolavoro stravolto al montaggio dalla produzione.

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QUEI BRAVI RAGAZZI (Goodfellas, USA/1990) di Martin Scorsese (146)
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“Da quando posso ricordare, ho sempre voluto essere un gangster”: uno dei grandi incipit della storia del cinema, una strana risonanza quasi proustiana avvia un racconto di mafia italoamericana giovane, crudele, euforica di chiassoso glamour. Vite sprecate, oblique redenzioni, vuotare il sacco e lasciarsi traghettare a una qualsiasi vita di pentito sotto protezione. Impareggiabile lezione visiva sulla produzione capitalistica e circolazione criminale del denaro. Il film che solo Scorsese avrebbe potuto girare (pcris).

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COLPO GROSSO (Ocean’s 11, USA/1960) di Lewis Milestone (127’)
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Danny Ocean (Frank Sinatra) riunisce dieci commilitoni per rapinare contemporaneamente, la notte di capodanno, cinque casinò di Las Vegas. Il colpo riesce, ma poi qualcosa va storto. Il film che ha ispirato la fortunata saga di Soderbergh è un’avventura divertentissima e mozzafiato che riunisce tutto il clan di Sinatra. Dialoghi affilati e affiatata compagnia di interpreti (da Dean Martin a Sammy Davis Jr., fino alla splendida Angie Dickinson). Titoli di testa di Saul Bass. “È un documento sociale, con una meravigliosa fotografia diurna e notturna. Giorno e notte a Las Vegas alla fine degli anni Cinquanta. Le relazioni fra i protagonisti del film sono fonte di ispirazione me, il cameratismo, il modo in cui si vestivano, si muovevano, il loro linguaggio stilizzato” (MS).

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CAPE FEAR – IL PROMONTORIO DELLA PAURA (Cape Fear, USA/1991) di Martin Scorsese (128’)
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Scorsese realizza il remake di un violento thriller diretto nel 1962 da Jack Lee Thompson in cui un criminale psicopatico terrorizza l’avvocato che lo aveva difeso e la sua famiglia. De Niro e Nick Nolte interpretano i ruoli che furono di Robert Mitchum e Gregory Peck (entrambi nel film in un cammeo). Pur aderendo ai canoni del film angosciante hollywoodiano dei primi Novanta non mancano accenni cinefili e temi cari all’autore come la redenzione finale della famiglia e il complesso rapporto tra crimine e religione.

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LA MORTE CORRE SUL FIUME (The Night of the Hunter, USA/1955) di Charles Laughton (93’)
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Capolavoro segreto del cinema americano, fonte d’ispirazione, oltre che per Scorsese, per Malick e mille altri, la prima e unica regia di Charles Laughton è una fiaba gotica vista dagli occhi di due bambini, fotografata in un bianco e nero espressionista e visionario, che regala a Robert Mitchum uno dei grandi ruoli della sua carriera, quello del sinistro predicatore che incombe come un orco sui piccoli protagonisti. Un film di opposti inconciliabili, come quelle parole – ‘love’, ‘hate’ (amore e odio) – che il predicatore ha tatuato sul dorso delle dita. “Un film straordinario, sicuramente migliore del mio Cape Fear. È uno dei film più poetici e potenti mai realizzati” (MS).

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L’ETÀ DELL’INNOCENZA (The Age of Innocence, USA/1993) di Martin Scorsese (138’)
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Quando Scorsese annunciò la sua intenzione di realizzare un adattamento del romanzo di Edith Wharton (prima donna della storia premiata con il Pulitzer) la sorpresa fu generale. Ad avvicinarlo a questa storia erano stati in realtà tutti temi profondamente scorsesiani: l’ossessione repressa, i riti e i codici non detti della ‘tribù’ e la violenza emotiva, qui espressa a colpi di servizi di porcellana e colpevoli trasgressioni: “ero curioso di vedere come avrei interpretato visivamente il film con una sensibilità come la mia, differente da quella di Visconti o di Wyler che pure ho tanto amato” (MS). (Cecilia Cenciarelli)

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L’EREDITIERA (The Heiress, USA/1949) di William Wyler (115’)
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William Wyler trasforma Washington Square di Henry James in un conciso dramma da camera che ispeziona la crudeltà dei personaggi – una zitella bruttina (Olivia de Havilland), un padre egoista e condiscendente (Ralph Richardson), un corteggiatore dandy interessato alla sua fortuna (Montgomery Clift) – e le loro ambigue motivazioni. La profondità di campo e le lunghe inquadrature trasformano la sontuosa casa di New York della famiglia in una prigione e poi in una tomba. “Costumi e scenografie come in L’ereditiera non li avevo mai visti prima, sembravano irradiare bellezza e amore per ogni dettaglio. Ho sentito profondamente il dolore dell’amante respinto Montgomery Clift e il dolore dell’orfana Olivia de Havilland, condannata all’eterna solitudine” (MS).

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AL DI LÀ DELLA VITA (Bringing Out the Dead, USA/1999) di Martin Scorsese (121’)
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Dal romanzo di Joe Connelly sceneggiato da Paul Shrader, la via crucis di un paramedico dell’ambulanza (Nicolas Cage) ossessionato dal ricordo di una ragazzina che non è riuscito a salvare. Un film dolente e amarissimo sullo sfondo di una New York notturna e feroce come quella di Taxi Driver, in cui il conflitto spirituale del protagonista si riflette nell’uso straniante di luci, suoni e montaggio.

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FRANCESCO GIULLARE DI DIO (Italia/1950) di Roberto Rossellini (87’)
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“Accostandomi alla figura di Francesco non ho preteso di dare una vita del santo, ho creduto invece opportuno mostrare i riflessi sui suoi seguaci. […] Il mio film vuole essere l’esposizione dell’aspetto giullaresco del francescanesimo, di quella giocosità, di quella ‘perfeta letizia’, della liberazione che lo spirito santo trova nella povertà” (Roberto Rossellini). “Mi piacerebbe fare una serie di film sulle vite dei santi. Il più grande di tutti è il Francesco di Rossellini, che lascia sgomenti per semplicità, compassione e cuore. Guardo quel film da venticinque anni e ho sempre desiderato realizzare qualcosa di simile, raccontare un essere umano che, attraverso azioni esemplari, ci mostra come vivere” (MS).

GANGS OF NEW YORK (USA/2002) di Martin Scorsese (167’)
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“È la storia di un ragazzo che cerca un padre e di un padre che desidera un figlio, sullo sfondo della Frontiera che diventa città, del western che diventa un gangster movie, con in più un tocco di Guerra Civile e di abolizione della schiavitù. Tutto in un film” (MS). Scorsese ricrea la New York di fine Ottocento a Cinecittà e ci offre una rappresentazione barbarica e brutale della nascita di una nazione fondata sulla violenza e il sopruso. “Gangs of New York si regge su una matematica lucidità d’intenti: la Storia dei popoli e delle razze (tutte) è fatta col sangue, coi quarti di libbra strappati dal corpo dei nemici vinti, con le vendette che squassano le generazioni, con l’odio cieco nei confronti di un’‘altro’” (Emanuela Martini).

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PARK ROW (USA/1952) di Sam Fuller (83’)
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New York, 1886: appena licenziato, uno spregiudicato reporter fonda un nuovo quotidiano che ottiene successo nonostante l’aspra concorrenza delle testate rivali. Fuller rilegge e ‘militarizza’ il mito dei pionieri del giornalismo in un film travolgente per ritmo e scelte stilistiche. Quando la violenza esplode per le strade, la macchina da presa va avanti e indietro tra gli edifici come in un’arena sportiva con vertiginosi piani-sequenza. “È un film molto importante per me per l’uso del carrello e per la messinscena dell’azione e della violenza. Realizzando sequenze così lunghe l’impatto emotivo dello spettatore risulta maggiore, dandogli la sensazione di essere al centro della furia e della rabbia” (MS).

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THE DEPARTED – IL BENE E IL MALE (USA/2006) di Martin Scorsese (151’)
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Diventare poliziotti o criminali: questa l’alternativa per chi viene dai bassifondi. Ma poi, alla fine, che differenza fa? Colpevoli o meno, si muore in un attimo, senza quasi rendersene conto, in quello che è forse il più cupo e pessimista dei film di Scorsese. Matt Damon e Leonardo DiCaprio sono le belle facce speculari della stessa medaglia americana. Infiltrato dalla malavita nella polizia l’uno, infiltrato dalla polizia nella malavita l’altro. A fare da collante un padre putativo (punitivo?) che ha il ghigno e l’animo mefistofelico di Jack Nicholson. I meccanismi – perfetti come gli ingranaggi di un orologio – sono quelli dell’hongkonghese Infernal Affairs, ma la tensione morale è puro Scorsese, che guadagna con questo film il suo unico, tardivo, Oscar per la regia. (gds)

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CENERE E DIAMANTI (Popiół I Diament, Polonia/1958) di Andrzej Wajda (103’).
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Nel maggio nel 1945 il partigiano nazionalista ‘bianco’ Maciek riceve l’ordine di uccidere un vecchio dirigente comunista al rientro in patria dopo anni di esilio. Non ci sono eroi in questa opera-manifesto della cosiddetta scuola polacca, che anticipa il nuovo cinema degli anni Sessanta. Sostenuto da un ritmo incalzante, è il film della delusione, dell’amarezza e dello scacco di un’intera generazione uscita dal terrore dell’occupazione. “Questo film fu per me una rivelazione. Rappresentava la tragedia di una nazione distrutta, della civiltà occidentale distrutta, la tragedia di un popolo sopravvissuto che doveva affrontare un nuovo sistema, rifiutandolo e combattendolo, ma con un senso di sconfitta” (MS).

ROLLING THUNDER REVUE – MARTIN SCORSESE RACCONTA BOB DYLAN (USA/2019) di Martin Scorsese (142’)
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Chi era Bob Dylan nel 1975? Un simbolo della controcultura, il troubadour iconoclasta della musica folk americana. Ispirato, irrequieto e sempre pronto alla metamorfosi, Dylan decide di allontanarsi dall’industria discografica e dai grandi concerti negli stadi e di mettersi in viaggio con un tour intimo, imprevisto e imprevedibile. Da qui è partito Scorsese per realizzare questo ‘documentario di finzione’ in cui si mescolano figure reali, impostori, personaggi e miti senza tempo. Sembra di essere in prima fila, anzi proprio sul palco di ognuno di quei concerti irripetibili. (Cecilia Cenciarelli)

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CLOSE-UP (Iran/1990) di Abbas Kiarostami (98’)
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Forse l’opera più ‘teorica’, ma allo stesso tempo ricca di tenera ironia, di Abbas Kiarostami. Racconta le peripezie di un poveraccio di Teheran che si spaccia per il noto regista Mohsen Makhmalbaf cercando di farsi finanziare un film. Un ‘documentario’ (il più bello sul fare cinema secondo Herzog) sull’ostinatezza del sogno e sul potere illusorio del cinema, in cui il piano della realtà e quello della messa in scena si fondono pirandellianamente. “Attraverso l’esperienza del cinema, creando cinema, anche senza il film o la macchina da presa, il protagonista di Close-Up esiste e ha importanza. […] Forse è il motivo per cui creiamo, per contare, per esistere. È davvero un film straordinario che mi ha commosso” (MS).

TAXI DRIVER (USA/1976) di Martin Scorsese (114’)
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C’è la sceneggiatura di Paul Schrader, l’influenza del cinema europeo (quella di Bresson per esempio), c’è New York con i suoi colori, i quartieri malfamati, la violenza e la giungla metropolitana, la musica di Bernard Herrmann, i primi piani di oggetti, i tergicristallo al rallentatore, in una città notturna: un’automobile come una bara semovente. “Con la fascinazione mista al terrore di chi rivive un incubo familiare, Scorsese celebra qui la Città ritrovata. E come già ai tempi di Mean Streets, non teme di ricorrere all’iperbole, per invocarne i malefici” (Michael Henry Wilson). Palma d’oro a Cannes 1978.

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ASSASSINIO PER CONTRATTO (Murder by Contract, USA/1958) di Irving Lerner (81’)
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Nella mente di un sicario. Che svolge con freddezza la sua professione, fino a quando non vacilla di fronte all’incarico di far fuori una donna pronta a testimoniare in tribunale. Uno dei film che più hanno influenzato Martin Scorsese: “lo spirito di Assassinio per contratto è molto vicino a quello di Taxi Driver. Lerner era un artista in grado di esprimersi con uno stile stenografico, come Bresson o Godard”. Un thriller “singolare e quasi perfetto, dallo stile scarno e deciso, con un’acuta sensibilità per la costruzione del personaggio, i dialoghi e l’ellissi narrativa” (Jonathan Rosenbaum).

NEW YORK, NEW YORK (USA/1977) di Martin Scorsese (162’/133’)
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La New York inventata dal cinema anni Quaranta, lucida di pioggia, scintillante di insegne al neon, tra i coni di luce e le volute di fumo dei jazz club. Scorsese trova i giusti colori per le memorie del bianco e nero: un film stilisticamente splendido, e tra i suoi più belli. “Poiché i vecchi set di Hollywood non esistevano più, li feci costruire da Boris Levin, che era stato scenografo in I misteri di Shanghai e West Side Story. Cercai di ispirarmi ai film di Vincente Minnelli per i movimenti di macchina e tentai anche di spingermi più in là”. Il film “è semplicemente la storia di due persone che si amano e che sono entrambe creative”: come dire, la personale declinazione di un’eterna storia americana, da È nata una stella a La La Land. (prcis)

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AMAMI O LASCIAMI (Leave Me or Leave Me, USA/1955) di Charles Vidor (122’)
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Hollywood, ruggenti anni Venti. Per raggiungere il successo la cantante-attrice Ruth Etting preferisce l’appoggio di un sordido gangster sciancato all’amore di un pianista. Finirà a pistolettate. Basato su una storia vera, un melodramma con canzoni in cui Doris Day dismette per una volta i panni zuccherosi della fidanzata d’America (seguiranno lettere di protesta dei fan) e in cui James Cagney troneggia in uno dei suoi ruoli di villain più memorabili. Se ne ricorderà Scorsese in New York New York.

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TORO SCATENATO (Raging Bull, USA/1980) di Martin Scorsese (129’)
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Quando un pugile si allena allo specchio, tirando e schivando con la sua immagine riflessa, si dice che sta ‘boxando con l’ombra’. L’espressione è così bella che ci porta inevitabilmente a vedervi impresse allusioni metaforiche: anche se sul ring ci si scazzotta in due, il pugile è sempre solo con se stesso, lui e il proprio lato oscuro. La figura epica e turbolenta di Jake LaMotta porta, sul proprio corpo martoriato, decenni di cinema sulla boxe, distillando alla perfezione la vena ostinata e disperata dei suoi protagonisti. “Bob si guarda allo specchio e ripete il discorso di Fronte del porto. Era l’immagine di qualcuno che aveva superato prove terribili, che aveva sofferto e fatto soffrire quelli che gli erano vicini, e che attraverso tutto questo era arrivato a una sorta di pace con se stesso e con il mondo” (MS).

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FRONTE DEL PORTO (On the Waterfront, USA/1954) di Elia Kazan (108')
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Un giovane portuale di New York, casualmente connivente con il potere mafioso dei ‘sindacati’ irregolari, prende coscienza, si ribella, denuncia i responsabili d’un delitto, viene quasi annientato ma si rialza in piedi, aiutato da una ragazza innamorata e da un prete cattolico: ha vinto la sua battaglia. Uno dei più grandi film degli anni Cinquanta, elettrico campo di forze tra le tensioni del realismo e del melodramma, concorso di luminosi talenti: soggetto di Budd Schulberg, cruda fotografia invernale di Boris Kauffman, musiche di Leonard Bernestein, i migliori attor giovani dell’Actor’s Studio e un Kazan mai così intenso, audace, scorticato. Un capolavoro illuminato dall’interpretazione di Marlon Brando. (pcris)

L’ULTIMA TENTAZIONE DI CRISTO (The Last Temptation of Christ, USA-Canada/1988) di Martin Scorsese (164’)
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Inseguendo un progetto covato da tempo, Scorsese prende il romanzo di Nikos Kazantzakis (sceneggiato da Paul Schrader), lo filtra attraverso il cattolicesimo della Little Italy in cui è cresciuto, lo imbeve di suggestioni rock e della musica di Peter Gabriel. Il risultato è un Gesù umanissimo, in lotta con la sua natura divina e, come spesso in Scorsese, con il suo destino. “Gesù è vissuto nel mondo. Non stava in un tempio. Non stava in chiesa. Stava in strada. Volevo fare un film su Gesù nell’Ottava strada, e sarebbe stato qualcosa di simile all’Accattone di Pasolini. Il pappone protagonista rappresenta tutti noi. È la nostra condizione mortale. E quando muore, in un certo senso, è come quando muore Gesù” (MS).

ACCATTONE (Italia/1961) di Pier Paolo Pasolini (116')
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“In Accattone ho voluto rappresentare la degradazione e l’umile condizione umana di un personaggio che vive nel fango e nella polvere delle borgate di Roma. Io sentivo, sapevo, che dentro questa degradazione c’era qualcosa di sacro, qualcosa di religioso in senso vago e generale della parola, e allora questo aggettivo, ‘sacro’, l’ho aggiunto con la musica. Ho detto, cioè, che la degradazione di Accattone è, sì, una degradazione, ma una degradazione in qualche modo sacra, e Bach mi è servito a far capire ai vasti pubblici queste mie intenzioni” (Pier Paolo Pasolini).

CASINÒ (USA/1995) di Martin Scorsese (178’)
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“Las Vegas è un po’ come una Sodoma e Gomorra circondata dal deserto. Ottenere il paradiso e perderlo a causa della cupidigia è la vecchia storia dell’Antico Testamento” (MS). Il racconto criminale scorsesiano si trasferisce tra i tavoli da gioco. Come Quei bravi ragazzi, è tratto da un romanzo di Nicholas Pileggi, con cui Scorsese torna a collaborare alla sceneggiatura. Ma è con la macchina da presa che dà vita alla sua “sontuosa, tragica, delirante visione del mondo: un mondo come guardato attraverso un caleidoscopio, che solo a tratti, all’improvviso e per un momento, si concretizza in una composizione dai lineamenti percettibili, per poi riesplodere in una gimkana di colori, musiche, grida, dadi, dita spezzate, omicidi, gioielli, insegne al neon” (Emanuela Martini).

Versione inglese con sottotitoli italiani

IL MUCCHIO SELVAGGIO (The Wild Bunch, USA/1969) di Sam Peckinpah (135’)
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“Il miglior film di Peckinpah in assoluto, il titolo che l’ha decretato mitico regista, e non solo di western. Con Cane di paglia è la sua opera più violenta, e l’avvio a un diverso modo di girare le scene di fuoco. Ma anche una dolente riflessione (ancora una volta) sul passato e una severa condanna della retorica dell’ordine, meschina e criminale davanti a chi, pur fuorilegge, è pronto ad andare fino in fondo per fedeltà a se stesso. Opera anarchica e triste, punto di riferimento per tutti i western del tramonto a venire” (Franco La Polla). “La resa dei conti alla fine del Mucchio selvaggio è una delle sequenze più esaltanti della storia del cinema, ed è anche una delle più grandi sequenze di ballo della storia del cinema. È pura danza” (MS).

Versione inglese con sottotitoli italiani

KUNDUN (USA/1977) di Martin Scorsese (128’)
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Giovinezza del XIV Dalai Lama, figlio di contadini scelto da bambino come reincarnazione del Buddha e costretto all’esilio dall’invasione cinese del Tibet del 1950. Sostenuto dalla fotografia di Roger Deakins e dalle scenografie di Dante Ferretti, Scorsese realizza un kolossal intimista (scritto da Melissa Mathison, sceneggiatrice di E.T.) che riesce a coniugare realtà storica, riflessione religiosa e straziante memoria personale. “Forse il cuore di questo film spiazzante è proprio nell’infanzia del Dalai Lama, nel suo resuscitare il mito di un potere puro, perfetto, mondato dalla sua contropartita di violenza, senza angoscia né ombra, senza errori né tormenti. Un potere che non esiste, almeno su questa Terra” (Fabio Ferzetti).

LADRO DI CAVALLI (Horse Thief, Cina/1986) di Tian Zhuangzhuang (88’)
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Ambientato nelle zone remote del Tibet, con un cast formato da abitanti del luogo non professionisti, è forse il più personale fra tutti i film cinesi della ‘quinta generazione’, indimenticabile rappresentazione di una terra e di un popolo marginalizzati. “La trama del film è semplice ed elementare come le vite delle persone che descrive. Un uomo viene espulso dal suo clan perché accusato di aver rubato dei cavalli. La sua vita diventa così dura che suo figlio muore. Si pente, viene riaccolto dal gruppo, ma è costretto a rubare di nuovo per salvare il suo secondo figlio. Zhuangzhuang ti trascina all’interno di una cultura che all’inizio ti sembra lontana come la superficie della luna, ma poi rende questa storia universale” (MS).

THE AVIATOR (USA-Germania, 2004) di Martin Scorsese (170’)
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Vent’anni (1925-37) nella vita di Howard Hughes (DiCaprio, mai così bravo), megalomane milionario, aviatore e costruttore di aerei, produttore e regista nella Hollywood degli anni d’oro. Scorsese ne segue la parabola discendente, dalla lavorazione tormentata di Gli angeli dell’inferno fino al lento sprofondare nella malattia mentale, trasformandola in una disanima sul sogno americano, definitivamente trasformato in incubo. “Per me Hughes apparteneva alla stessa categoria dei re mitologici come Creso e Mida. Ha le ali per evadere dal labirinto, come quelle che Dedalo fabbrica per Icaro, ma anche lui vola troppo vicino al sole” (MS). Cinque premi Oscar, tra cui quello a una mimetica Cate Blanchet nei panni di Katharine Hepburn, il più importante dei difficili amori di Hughes.

THE APPOINTMENT (GB/1981) di Lindsey C. Vickers (80’)
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Una gemma riscoperta del cinema horror inglese anni Ottanta, primo e unico film, mai uscito in sala, di Lindsay Vickers, regista formatosi nella factory della Hammer. Un uomo d’affari (Edward Woodward, indimenticato protagonista di The Wicker Man) decide poco saggiamente che una riunione di lavoro è più importante del recital di violino della figlia adolescente. Oscure forze psichiche, inquietanti presagi, minacciosi sogni premonitori lo accompagneranno verso l’inevitabile truce finale. Un horror anomalo dall’atmosfera sospesa in cui “è più importante quello che non vedi” (Vickers).

SHUTTER ISLAND (USA/2010) di Martin Scorsese (139’)
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Siamo nel 1954, all’apice della Guerra Fredda, quando il capo della polizia locale Teddy Daniels (Leonardo DiCaprio) e il suo nuovo partner Chuck Aule (Mark Ruffalo) vengono convocati sull’isola fortezza di Shutter Island per indagare sull’inverosimile scomparsa di una donna pluriomicida. Si renderanno presto conto che nulla è come appare, tra oscuri complotti e sordidi esperimenti. Dal romanzo omonimo di Dennis Lehane, un thriller psicologico claustrofobico e a fortissimo tasso cinefilo, in cui “Scorsese esplora il terrore non solo della psiche individuale e della società in generale, ma anche del cinema stesso, il cinema che ama e con cui è cresciuto” (Richard Brody).

LE CATENE DELLA COLPA (Out of the Past, USA/1947) di Jacques Tourneur (97’)
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Uno dei caposaldi della cinefilia classica, un fulgido archetipo del noir. Robert Mitchum fa il benzinaio in provincia, su uno sfondo di monti. Ma poco ci vuole perché il passato ritorni, nelle forme d’un gangster di cui una volta era stato al servizio. Torna anche una donna, la dark lady che già l’aveva amato e ingannato. La pioggia battente sferza ogni ricordo e desiderio, Mitchum si infila l’impermeabile, socchiude quei bedroom eyes come solo lui sa fare e s’arrende al destino (con consapevole nichilismo, confessato solo a un taxista). Dagli horror di Val Lewton, Tourneur porta con sé il prodigioso direttore della fotografia Nicolas Musuraca, cui si devono il bianco bagliore dei flashback messicani e le ombre d’una lunghissima notte americana. (pcris)

HUGO CABRET (Hugo, USA/2011) di Martin Scorsese (125')
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Una fantastica avventura, un volo visionario sopra la storia del cinema, in uno stupefacente diluvio di effetti speciali. Un ragazzino solitario guarda il mondo dalla stazione-antro di Montparnasse, negli anni Trenta; ha per compagno un uomo meccanico incompiuto; se esce allo scoperto, è per infilarsi nelle sale cinematografiche; infine incontra Georges Méliès, vecchio pioniere del cinema meraviglioso, e da lì comincia la sua vera vita. Sotto la trama sottile del racconto di formazione, l’apologo adulto è dedicato al potere del cinema e alla sua fragilità (sognare e preservare per continuare a sognare). Un film nostalgico e progressivo. (pcris)

STUPENDA CONQUISTA (The Magic Box, GB/1951) di John Boulting (103’)
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In uno sfolgorante technicolor, invenzioni e tribolazioni di William Friese-Greene, sfortunato pioniere del cinema britannico. Uno delle opere che più hanno ispirato Scorsese nel plasmare il personaggio di Hugo Cabret: “è il film che più mi ha segnato a proposito del fare cinema, quello che mi ha fatto pensare ‘forse posso farcela anch’io’. Mio padre mi portò a vederlo quando avevo dieci anni. Non era solo un film sul cinema, ma anche sulla passione e l’ossessione dei personaggi di quell’epoca. […] Tornato a casa cominciai a fare dei disegni… disegni che si muovevano”.

GEORGE HARRISON: LIVING IN THE MATERIAL WORLD (USA/2011) di Martin Scorsese (208')
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“La musica è stata fondamentale per me. E George Harrison, con la spiritualità delle sue composizioni, mi ha spesso portato a livelli di creatività di cui, dal passato a oggi, non posso che essergli grato” (MS). Il documentario (che ‘ruba’ il titolo all’album dell’ex Beatles) ripercorre, frammento dopo frammento, l’esistenza del musicista, attingendo a rari materiali d’archivio e filmati girati dallo stesso Harrison e dai suoi amici. Ricco di testimonianze di compagni di strada e di lavoro.

IL FIUME (The River, Francia-India-USA/1951) di Jean Renoir (99')
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Nell’India coloniale il Gange scorre solcando frammenti di vita, gli amori adolescenti di miss Harriet, l’ombra della morte, la prima cognizione del dolore, il sentimento acerbo di una sovranità spirituale della natura. Occorre abbandonarsi alla sua cadenza sensuale, l’esperienza sarà totalmente ripagante. (pcris). “Insieme a Scarpette rosse è il più bel film a colori che sia mai stato fatto […] E poi la musica – non ho mai più ascoltato nulla di simile – le variazioni nella continuità della musica, che fluiscono l’una nelle altre sono molto sottili ma molto potenti. […] Un film senza una vera trama e il cui vero soggetto è il ritmo dell’esistenza, i cicli di nascita, morte e rigenerazione, e la fugace bellezza del mondo” (MS).

THE WOLF OF WALL STREET (USA/2013) di Martin Scorsese (180')
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Basato su una storia vera, segue l’impressionante ascesa e la caduta di Jordan Belfort (Leonardo DiCaprio), il broker di New York che conquista un’incredibile fortuna truffando milioni di investitori. Un giovane ‘nuovo arrivato’ nel tempio del capitalismo mondiale che si trasforma via via in un corrotto manipolatore dei mercati e in un cowboy della Borsa. Scorsese crea un racconto oltraggioso, una dark comedy contemporanea sull’alta finanza, un mondo dove domina l’estorsione perfetta. Il risultato è un viaggio epico nell’esaltazione provocata da avidità, adrenalina, sesso, droghe e dal vortice costante del denaro guadagnato troppo facilmente.

PIOMBO ROVENTE (Sweet Smell of Success, USA/1957) di Alexander Mackendrick (96’)
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Un megalomane giornalista newyorkese, morbosamente attaccato alla sorella, ordina a un suo galoppino di costruire uno scandalo che metta fuori gioco il di lei fidanzato, chitarrista jazz. Dopo il successo del caustico La signora omicidi, lo scozzese Mackendrick vola a Hollywood e realizza (a partire da una sceneggiatura di due autori ‘hitchcockiani’come Clifford Odets e Ernest Lehman) “uno dei film più audaci, sorprendenti e selvaggi sullo show business e sul potere mai realizzati in America” (MS). Grandi interpretazioni della coppia servo-padrone Burt Lancaster e Tony Curtis.

Versione inglese con sottotitoli italiani

SILENCE (USA/2016) di Martin Scorsese (161')
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Dall’omonimo romanzo di Shusaku Endo, la storia di due missionari portoghesi che nel XVII secolo intraprendono un lungo e pericoloso viaggio per raggiungere il Giappone, alla ricerca del loro mentore scomparso. Scorsese esamina il problema spirituale e religioso del silenzio di Dio di fronte alle sofferenze umane: “Ho cercato il silenzio per tutta la vita. Sono cresciuto in un quartiere, che è riflesso nei miei film, affollato e rumoroso. Ho sempre cercato la quiete di notte. […] Silence è il Silenzio di Dio, certamente, ma anche quel silenzio che oramai non esiste più; bisognerebbe mettersi in quello stato d’animo che permette di tornare a sentire il silenzio, di spazzare via la follia e il vociare continuo dei nostri giorni” (MS).

MONSIEUR VINCENT (Francia/1947) di Maurice Cloche (111’)
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Vita e opere di Vincenzo de’ Paoli (magistralmente interpretato di Pierre Fresnay), parroco, elemosiniere generale delle galere sotto Richelieu e infaticabile promotore di istituzioni benefiche, capace di imporre ai governanti la carità pubblica come dovere di stato. “Biografia e affresco sociale sono qui intimamente connessi. Il film propone un’assai convincente ricostruzione della Francia del Diciassettesimo secolo coi suoi splendori e la sua miserie, le sue ossessioni e le sue barbarie. I dialoghi rivestono un’importanza particolare apportando al film una dimensione lirica e il distacco di una riflessione filosofica” (Jacques Lourcelles).

THE IRISHMAN (USA/2019) di Martin Scorsese (209')
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“Parla di vite che vanno e vengono, con tutti i loro tumulti, i drammi, la violenza, le perdite… e di come inevitabilmente svaniscano, come tutti. Il film è un mausoleo di miti. Trasforma in rimpianti tutti i miti del gangster. Questo film lo si vive. Un capolavoro. Corollario perfetto a Quei bravi ragazzi e Il padrino“. Non si tratta di una recensione ma dei giudizi entusiasti affidati a Twitter da Guillermo del Toro, emblematici dell’ammirazione unanime suscitata dall’epico, colossale gangster movie di Martin Scorsese, che torna a raccontare la malavita americana con un cast d’attori di prima grandezza: Robert De Niro, Al Pacino, Joe Pesci, Harvey Keitel. Dal libro L’irlandese di Charles Brandt, la storia di Frank Sheeran, il sicario della mafia che uccise Jimmy Hoffa.

IL GIORNO DELLO SCIACALLO (The Day of the Jackal, GB-Francia/1973) di Fred Zinnemann (145’)
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Da Mezzogiorno di fuoco a Da qui all’eternità, ha attraversato tutti i generi hollywoodiani. Nell’ultima parte della sua carriera, Fred Zinnemann firma un avvincente film di spionaggio dall’omonimo bestseller di Frederick Forsyth. Dopo la guerra d’Algeria, l’OAS incarica uno spietato killer inglese soprannominato ‘lo Sciacallo’ di assassinare De Gaulle. Il controspionaggio francese fa di tutto per smascherare l’omicida. Zinnemann studia con dovizia di particolari le strategie messe in campo dalle parti antagoniste e compone un puzzle teso ed enigmatico sostenuto dalla suspense e dal ritmo incalzante.

Non solo coppie... I singoli film della Carta bianca di Scorsese

ROCCO E I SUOI FRATELLI (Italia/1960) di Luchino Visconti (177’)
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“Una tragedia in cinque atti, ognuno dei quali prende il nome da uno dei fratelli Parondi (Vincenzo, Simone, Rocco, Ciro, Luca). Protagonisti prediletti sono, ancora una volta, i vinti, ma qui vinte non sono solo le persone, è una civiltà che sta per essere annientata. Il tema della famiglia che si autodistrugge per una lotta fratricida, che sarà ampliato in La caduta degli dei e in parte era presente in La terra trema, è uno dei centri del film e Visconti si occupò prevalentemente del contrasto drammatico fra Rocco e Simone e dell’uccisione di Nadia, svelando tutto il suo talento nelle scene madri, nelle opposizioni violente, nei dialoghi serrati, in particolare quelli tra i tre protagonisti, personaggi complementari, presenze tragiche che esprimono costantemente la difficoltà di vivere al nord, in una società disumana”. (Gian Luca Farinelli)

FORCE OF EVIL (Force of Evil, USA/1948) di Abraham Polonsky (89')
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“Un film come un potenziale acido corrosivo gettato sulla solenne, timorosa ottusità della società americana: l’incredibile Le forze del male di Abraham Polonsky. Perché ‘incredibile’? Perché è difficile capire come sia stato possibile fare un film del genere. Perfino i suoi estimatori si sforzano di dire che era solo un noir o un film con John Garfield, l’ennesima storia d’amore sullo sfondo del crimine organizzato. Ma […] il crimine organizzato in Le forze del male non è il solito adolescente sogno noir infarcito di illusioni maschili e di persistente paura delle donne. È una favola nera uscita da Karl Marx, ma sembra girata da Fritz Lang in Germania”. (David Thomson)

ITALIANAMERICAN (USA/1974) di Martin Scorsese (48')
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Martin Scorsese parla con i genitori della vita nella Brooklyn italoamericana anni Cinquanta: una conversazione registrata in un weekend del 1974 porta alla luce le memorie di una famiglia italoamericana nella quale sta maturando una personalità straordinaria. “Italianamerican ci aiuta a capire meglio che cos’è l’identità, al di là di tanti e troppi luoghi comuni, ma è anche un’operazione fondamentale che oggi dovrebbe diventare modello culturale. Scorsese fece quest’operazione in tempi non sospetti, spinto probabilmente dall’urgenza di salvare la memoria delle sue radici, di un’identità che stava correndo. Avere memoria significa avere cura” (Carlo Petrini).

NO DIRECTION HOME (USA/2005) di Martin Scorsese (207')
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Bob Dylan è uno dei musicisti più influenti, ispiratori e innovatori dei nostri tempi. Scorsese ricostruisce la straordinaria storia del viaggio del cantautore dalle sue origini in Minnesota al suo debutto nei caffè del Greenwich Village, fino alla tumultuosa ascesa nell’olimpo delle star del pop. Joan Baez, Allen Ginsberg e molti altri condividono i loro pensieri e sentimenti riguardo al giovane cantante che avrebbe cambiato la pop music per sempre. Attraverso frammenti inediti, interviste esclusive e insolite esibizioni live, Scorsese ci offre il ritratto dell’artista: la storia mai raccontata di una leggenda americana vivente.

PUBLIC SPEAKING (USA/2010) di Martin Scorsese (85')
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Intelligente, brillante e divertente, Fran Lebowitz entrò nell’ambiente letterario di New York all’inizio degli anni Settanta quando, ancora sconosciuta, si vide affidare da Andy Warhol una rubrica sulla rivista “Interview”. Oggi è un’autrice acclamata con schiere di fan che adorano il suo umorismo caustico. Questo lungometraggio intreccia monologhi estemporanei di Fran Lebowitz e filmati d’archivio. Diretto da Scorsese con lo stile vigoroso e inimitabile dei primi documentari, ritrae l’autrice in conversazione con il regista al Waverly Inn di New York, in una discussione con l’amica e celebrata scrittrice Toni Morrison e per le strade di New York. Alla Lebowitz Scorsese dedicherà dieci anni più tardi anche una docuserie tv.

SHINE A LIGHT (USA-GB/2008) di Martin Scorsese (122’)
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“La musica e lo spettacolo. Questo serve a raccontare gli Stones. Null’altro” (MS). Sul palco del Beacon Theater di New York, tappa del tour A Bigger Bang nel 2006, predispone un apparato tecnico maestoso per immortalare sullo schermo un’energia vitale e incontenibile che gli anni non hanno scalfito. “Può il rock, si domanda il regista, diventare saggio adattandosi ai cambiamenti sociali? Shine a Light risponde con uno slancio mistico. Mick, circondato da luci soprannaturali, troneggia e toneggia al centro di questa scenografia di raggi michelangioleschi, è la reincarnazione di Cristo che ridiscende per salvarci. Negli anni Sessanta, dalle convenzioni borghesi, dalla noia, dall’identico, dall’apocalisse nucleare. Oggi dalla vecchiaia, dall’autocompiacimento e dalla fine” (Lorenzo Codelli).

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