La mamma era una grande arca

L’edizione del festival Visioni italiane 2020 ha accolto in maniera plurale la tematica genitori-figli, soffermandosi in particolare sullo sguardo al femminile. Cosa sono, cosa lega e cosa separa una madre e una figlia? Presentato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, Being my mom è l’opera prima di Jasmine Trinca, pluripremiata attrice italiana, che in questa occasione ha deciso di mettersi dietro l’obiettivo.
La prima scena del cortometraggio mostra una bambina dallo sguardo severo che redarguisce la madre (l’amica Alba Rohrwacher) colta in atteggiamenti infantili, quasi animaleschi. Le due protagoniste camminano in una Roma torrida e assolata, trascinando con loro una grande valigia, a volte leggera, a volte pesante, come la vita. La città è vuota, contrariamente alla sua usuale veste da cartolina. È la città di Jasmine Trinca, in cui ci si può arrampicare su un albero, si può fischiettare come gli uccelli o sentire il vento tra i capelli osservando il panorama da un ponte. La regista si racconta bambina nel suo legame personale con la madre da poco scomparsa: i ruoli non sono univoci e stereotipati, come nel più classico teatro pirandelliano – la bambina non è del tutto bambina, così come la madre non è del tutto madre. È in questo sovvertimento dei personaggi che si svela il loro grande valore, mostrando le fragilità di ognuno e soprattutto quelle di un adulto – una madre – non infallibile agli occhi di un figlio – una figlia. Il rinnovato legame tra le due protagoniste non avviene attraverso la parola, ma solo con il canto, un inno alla vita, oltre la vita: “Se bruciasse la città, da te, da te, da te io correrei. Anche il fuoco vincerei per rivedere te”. Su questa canzone di Massimo Ranieri si conclude Being my mom, compiuta osmosi tra la storia personale della regista e una più alta riflessione metaforica sull’esistenza.
Lo sguardo intimo che Jasmine Trinca, come figlia, dedica a sua madre emerge chiaramente anche in Supereroi senza superpoteri di Beatrice Baldacci. Il cortometraggio è stato sviluppato e realizzato nell’ambito del percorso di formazione del Premio Zavattini e successivamente selezionato alla Mostra del Cinema di Venezia 2019 nella sezione Orizzonti.
La regista Beatrice Baldacci si affida al cinema per rielaborare un lutto, quello di sua madre, ma anche per fare memoria di lei e addolcirne l’assenza prematura. Infatti a schiudersi è un prezioso vaso di Pandora che attinge a filmini di famiglia: la regista mostra se stessa bambina, accudita giorno dopo giorno dalla madre, separatasi dal marito in giovane età. La storia familiare si intreccia all’immagine d’archivio che, attraverso quiz televisivi, partite di calcio, stacchetti e balli di gruppo racconta la società italiana degli anni Novanta. A guidare lo spettatore in questa retrospettiva mnemonica è la voce narrante della stessa regista; la dimensione verbale, spesso drammatica, contrasta con quella iconica, fresca e leggera, creando spiazzanti cortocircuiti stilistici, perciò anche emotivi. Il documentario, in quanto oggetto filmico, si fa primariamente documento, ma anche protesi del ricordo (recordare, dal latino re, indietro e cordare, cor, cordis, cuore, riportare al cuore), che diventa interpretabile, quindi sottoposto a rimodellazione nel corso del tempo. Inevitabile è il riferimento all’ormai storico film documentario del 2002 Un’ora solo ti vorrei di Alina Marazzi, interamente costruito grazie ai materiali provenienti dal suo archivio personale.
Jasmine e Beatrice ricordano quindi le proprie madri in maniera diversa, quasi antitetica: ricordano anche agli spettatori  le infinite possibilità narrative del mezzo cinematografico.

di Filippo Perri
Corso di alta formazione per la diffusione della cultura e del patrimonio cinematografico (Rif. PA. 2019-11896/RER/01 approvata con DGR n. 1277/2019 del 29/07/2019)

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