Report 18 novembre 2020 | Film di ieri, registi di domani

Mercoledì 18 novembre si è tenuto il secondo incontro con alcuni dei giovani autori in concorso alla 26a edizione di Visioni Italiane. Edizione forzatamente online che giustamente sfrutta uno dei vantaggi della sala virtuale allestita sulla piattaforma MYmovies: riunire persone fisiche distanti svariati chilometri fra loro. Otto gli autori presenti, intervistati dal direttore della Cineteca di Bologna Gian Luca Farinelli, con la supervisione della Direttrice Artistica del festival Anna Di Martino. Gli interpellati, seduti alle loro scrivanie tra Bologna, Nanchino, Parigi, Bruxelles e Fraccano in Umbria, sono i documentaristi Rita Andreetti, Mathieu Volpe, Valentina Olivato e i cortisti Olga Torrico, Aliosha Massine, Gianluca Zonta, Chiara Livia Arrigo, Antonio Benedetto. I primi due presentano i loro lavori nella sezione Visioni Doc, mentre gli altri partecipano al Concorso Visioni Italiane e alla sezione Emilia-Romagna Cinema.
L’argomento che occupa quasi interamente l’ora dell’incontro telematico è una delle questioni forse più curiose della creazione, ovvero da dove viene l’ispirazione che muove l’artista. Da cosa nasce l’esigenza di raccontare? Dove e come trova il filmaker il soggetto del suo film?
Le risposte, le idee di partenza, le origini dei progetti non possono che essere tra le più variegate vista la diversità tra gli autori, le opere presentate, tra fiction e documentari.
Qualcuno cita San Paolo sulla via di Damasco: Antonio Benedetto autore della piccola commedia grottesca Dio Esiste, racconta tra il serio e il faceto di avere avuto per molto tempo un pensiero fisso su l’esistenza del divino fino alla folgorazione due anni fa sul sentiero che porta al Santuario della Madonna di San Luca a Bologna, città in cui vive. Una visione mistica e un bisogno di confessarsi subito trasferiti su Angelo, il protagonista del suo film.
Si resta nel genere commedia (poche quelle in concorso quest’anno) anche con l’altro autore, emiliano (d’adozione) Gianluca Zonta, che in Pizza Boy tratta in maniera lieve la questione  migrazione e sfruttamento dei rider, in una Bologna notturna e malinconicamente pre-Covid. In lui è forte l’esigenza di raccontare il dramma sociale ma usando il suo tono personale: lui la commedia ce l’ha “dentro”, nei suoi lavori mette sempre qualcosa di grottesco, anche nelle cose più serie. A suo parere anche lo spettatore lo preferisce come tono, troppa serietà “appesantisce” la storia. Ad arricchire questo corto con la sua professionalità un grande del teatro italiano, Roberto Herlitzka.
Rita Andreetti, che ha diretto il documentario The Observer (un ritratto partecipe dell’artista e cineasta dissidente cinese Hu Jie) e Mathieu Volpe, regista di Notre Territoirie,  parlano di destino e coincidenze. Andreetti si trovava in Cina per lavoro quando la sua azienda entrò in contatto con una docente che si stupì del fatto che lei non conoscesse questo artista, invitandola perciò ad un incontro con l’uomo che diventerà non solo il soggetto della sua narrazione, ma un amico e un esempio di umiltà ed integrità. Volpe scopre il campo di Rignano, oggetto del suo film, perché collabora con una troupe teatrale che fa spettacoli sui temi della migrazione e dello sfruttamento del lavoro nei campi pugliesi. Un operatore Caritas lo accompagna al campo. Volpe ne ricava un’esperienza umana unica che rende poetica tramite le riprese in Super8, l’uso parco delle immagini in bianco e nero, un grande lavoro sul commento off e sul suono, tra memoria personale e fatto storico, che ricorda un certo cinema francese. Lui stesso ammette di aver subito l’influenza di due film di Chris Marker, La Jeteé e Sans Soleil.
Valentina Olivato ha urgenza di raccontare un incontro personale per darsi delle risposte, per capire se stessa ma anche per informare lo spettatore di un tema quanto mai attuale e controverso: il suo The Childhood Experience è un documentario che indaga ed esplora l’homeschooling, seguendo la quotidianità, le emozioni e i pensieri di quattro fratellini bolognesi e dei genitori che per loro hanno deciso questo metodo educativo. Una scelta che alla regista è sembrata estrema, lontana e diversa da quella che solitamente noi conosciamo, un argomento di forte impatto che la regista affronta con delicatezza dal punto di vista dei quattro minori. Sullo sfondo ci sono l’invidia e il rispetto per l’enorme libertà e maturità di questi bambini ma anche un interrogativo importante: la scelta di non andare a scuola in che modo influenza il loro presente e come definirà il loro futuro?
Aliosha Messine, attore teatrale e autore de Il posto della felicità (corto prodotto da Marcello Fonte, l’iconico attore scoperto da Matteo Garrone, che però come precisa Messine è rimasto dietro le quinte) trova l’origine di questo posto utopico e tutto filmico, dove le persone sono felici oltre le leggi e le imposizioni dettate dalla famiglia e dalla religione, nella rabbia provata contro la politica di chi dal 2018 grida che il male arriva con i barconi dal mare. E poi dalla necessità tutta personale, intima, di capire – lui che non ha fatto scuole di cinema – cos’è è il cinema. Lo ha fatto col racconto di un rito celebrato tra una coppia d’innamorati e i loro amici in collina, un rito segreto, impensabile in città, costruito invitando il cast a mettersi in gioco in prima persona, oltre la maschera interpretativa, facendo un esperimento di gruppo, quasi una danza che a Farinelli ricorda il cinema jugoslavo degli anni Sessanta.
Per parlare di come nasce il suo film Lindiota, titolo quanto mai orginale, Chiara Livia Arrigo tocca invece i temi del potere taumaturgico, catartico della creazione: Lindiota è l’elaborazione filmica  personalissima di un trauma (aver avuto due genitori tossicodipenti). Un corto che parla di lei, dei suoi genitori e della loro generazione. Altea, la protagonista, è senza pudore il suo alter ego, una ragazza che vuole fare cinema e che per trovare una sua lingua parte verso il luogo che fu dei genitori, Lindos, un’isola greca dove ancora abita il vecchio amico della coppia. Da qui parte un viaggio, una strada verso il proprio io interiore, fatto – come l’introspezione richiede – di fatica, di vari strati sovrapposti. Tanti gli elementi in gioco – il found footage, il film di finzione, il rotoscope per la parte d’animazione, le riprese paesaggistiche – che, come criticamente ammette l’autrice stessa, predispone a qualche errore ma che rende l’idea originale di provare a mettere in scena il proprio immaginario, l’autoanalisi.
Anche Olga Torrico, tra le più giovani autrici in concorso, parla di immaginario intimo, di capacità d’introspezione, di scavo interiore. Anche lei fa largo uso del found footage, i filmati d’archivio. Gas Station è il suo primo cortometraggio, un progetto che nasce come prova didattica, girato in sole 12 ore e in pellicola, la storia di una ragazza che grazie ad un incontro casuale e fortunato ritrova la sua anima di musicista. Il bisogno è quello di raccontare cosa succede quando mettiamo via una parte di noi stessi nel nostro profondo, cosa accade quando questa parte torna in superficie per farsi ascoltare. Girare, montare immagini che vengono da archivi (anche dai propri personali home movies) diventa un modo per confrontarsi con qualcosa di magico, significa far affiorare la propria emotività, scoprire “i segni che arrivano da quello che non vediamo”.
di Erika Baldini

Corso di alta formazione per la diffusione della cultura e del patrimonio cinematografico (Rif. PA. 2019-11896/RER/01 approvata con DGR n. 1277/2019 del 29/07/2019)

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